La mia generazione é figlia di figli del dopoguerra. I nostri genitori hanno vissuto carestia e povertà . La fame era consuetudine e la frugalità non era uno stile di vita.
Ciò ha fatto si che crescessimo con l’obbligo di portare a termine il nostro pasto prima di alzarci da tavola. Non c’era spazio per lo spreco, non era nemmeno concepito. Semplicemente, poichè la maggior parte di loro avevano vissuto le privazioni alimentari, non ammettevano null’altro che un elogio all’opulenza.
De Crescenzo scrisse nella sua biografia «Sono stato fortunato» a proposito dei tempi di guerra : …staccavamo la carta da parati per leccarla …., poiché una volta si attaccava al muro con una miscela di acqua e farina. E quella era la loro fonte di carboidrati quotidiani.
Questa attitudine di “dover terminare il piatto ad ogni costo” mi dà del filo da torcere tutti I santissimi giorni in ambulatorio. La maggior parte dei problemi nasce dal fatto che così facendo affidiamo la valutazione della sazietà ad un oggetto (il piatto, che può avere infinite forme e dimensioni), senza nemmeno porci la domanda su cosa prova il nostro stomaco.
Il condizionamento alimentare comincia appena nasciamo, quando un bébé piange, la mamma lo prende tra le braccia e lo attacca al seno. Alzi la mano chi per prima non ha provato ad dargli il latte pur consapevole che il bambino non avesse fame: io per prima. Eppure così facendo inevitabilmente ed incosapevolmente,creiamo un legame tra frustrazione e cibo.
Avete un cibo consolatorio? Spesso le persone annoverano tra I confort food, qualcosa di bianco e cremoso, come il latte materno: gelato, crema, latte, panna, purea con il latte, formaggio. [1]
Il legame con il cibo prosegue indissolubile durante tutta l’infanzia e l’adolescenza «se fai il bravo ti compro il gelato» oppure «se prendi un bel voto avrai un bel dolce». Il rinforzo positivo è un metodo pedagogico di cui io stessa mi faccio portavoce. Declinato in senso alimentare può avere però un suo prezzo da pagare. Il bambino si aspetterà dunque ogni volta il premio? Svilupperà l’associazione « malessere fisico o morale => scatola di cioccolatini» ?
Lungi da me dal giudicare il metodo, non sono una pedagogista. Non scaglio la prima pietra perché credo di averlo utilizzato come premio poco tempo fa con il mio figlio minore . Aveva scelto lo zucchero filato qualora durante la settimana avesse fatto tutti i suoi compiti; (per inciso l’obiettivo non é stato raggiunto e il premio non é stato consumato). Quello che mi dico io é che se si tratta di un premio una tantum può mantenere il suo valore educativo, ma non tutti i giorni 5 volte al giorno.
Nell’età adulta arrivano poi i condizionamenti esterni, pubblicità, marketing, consumismo ci dicono cosa mangiare, quando mangiare e perché mangiare .
La nostra mente settata sul parametro del capitalismo occidentale, crede di aver bisogno della Fiesta per riprendere la concentrazione, di uno yogurt Müller per fare l’amore con il sapore, di una CocaCola per avere un ragazzo sexy che ce la porge.
Così facendo ascoltiamo gli imput che ci vengono imposti per essere felici.
Come dice il dottore Berrino medico ex direttore dell’Istituto tumori italiano[2] stamane nella sua intervista al Corriere della Sera, la nostra società obesogena ha bisogno di sempre più cose per sentirsi felice ma in realtà sappiamo benissimo che comprare alimenti industriali e confezionati aumenta il problema poichè questo mercato ha un peso economico, sanitario, ed ambientale.
Allora ecco che quando abbiamo una delusione, uno scontro, un problema finanziario, si verifica quello che in inglese è definito self-soothing, auto-assicurazione. Si mangia come se non ci fosse un domani fino a far placare le voci, i pensieri e le emozioni. Inutile dire che ritorneranno a galla rapidamente e che questo è lo stesso meccanismo che induce a drogarsi, a bere o a fumare.
Io non sono qui per fare la morale, ne tantomeno per somministrare una pillola magica di saggezza che risolva questi circoli viziosi.
Credo piuttosto che:
1. Mindfuleating
Bisogna riappropriarsi delle nostre sensazioni alimentari, imparare a riconoscerle ed insegnare ai nostri bambini la mindfull eating2. Elefante rosa:
se vi chiedo di non pensare ad un elefante rosa, la prima cosa a cui penserete è proprio un elefante rosa. Con ciò intendo che non c’è proibizionismo in senso assoluto. Altrimenti sia per l’adulto che per il bambino diventérà una sfida alla trasgressione.3. Assaggiare
In casa mia vige questa regola, si assaggiano almeno 2 cucchiai, se non piace non ci sono forzature, ma nemmeno poi «puoi mangiare quello che vuoi»4. Domande
Mi sto servendo di Nuovo perchè ho veramente fame? Sto mangiando per golosità? Perchè non voglio sprecare? Perché così e la mia forma mentis? Il problema di molti dei miei pazienti è che sentono solo il messaggio del troppo mangiato, ovvero quando lo stomaco sta strabordando e la sua capicità contenitiva è al limite (i.e. pre-vomito)5. Hara hachi bu
“mangia finchè sei sazio all’ottanta per cento” questo detto è nato nell’isola di Okinawa, che accoglie una delle popolazioni più longeve al mondo; significa alzarsi da tavola quando si è registrato un piacevole senso di sazietà ed abbiamo l’impressione che potremmo mangiare ancora qualcosina. No aspettiamo, godiamoci qualche minuto la sensazione e più tardi eventualmente concediamoci un frutto. [3][1] Mindful eating , Jan Chozen Bays
[2] intervista-berrino-segreto
[3] Japonisme, Erin Niimi longhurst, HarperCollins